Una famiglia stabilisce che la sua ragion d’essere è quella di arricchirsi. Allora abbandona i suoi esponenti più fragili perché sono un impedimento alla sua prosperità. Gli altri figli, quelli privilegiati, provano ribrezzo per questi fratelli sbandati. Non comprendono le loro esigenze, non tollerano le loro abitudini triviali. Sono convinti di aver meritato quel privilegio, che la loro elezione non è stata un azzardo ma una scelta ponderata. Non è quindi affar loro il lamento di quegli sventurati che, in fondo, non lo dicono ma lo pensano, hanno meritato quel destino d’emarginazione.
Nelle terre di nessuno vivono e proliferano questi figli abbandonati con un’unica vocazione possibile: l’odio verso la famiglia.
L’odio vocazionale presto invade le terre di qualcuno, quelle della famiglia originaria. E così la famiglia si accorge nuovamente di loro e prova sgomento per questa violenza inaudita. I capifamiglia si riuniscono, c’è chi alza la voce e sbraita, altri cercano di non perdere la testa, qualcuno sghignazza perché spera di fare carriera.
Tuttavia, nessuno di loro che sia mai sfiorato da un pensiero visionario: se il difetto fosse all’origine? Se il senso del vivere in famiglia non fosse una spietata competizione tra figli produttivi e improduttivi? Se questa violenza, che ciclicamente torna, fosse stata generata proprio dalla nostra indifferenza?