La famiglia

Una famiglia stabilisce che la sua ragion d’essere è quella di arricchirsi. Allora abbandona i suoi esponenti più fragili perché sono un impedimento alla sua prosperità. Gli altri figli, quelli privilegiati, provano ribrezzo per questi fratelli sbandati. Non comprendono le loro esigenze, non tollerano le loro abitudini triviali. Sono convinti di aver meritato quel privilegio, che la loro elezione non è stata un azzardo ma una scelta ponderata. Non è quindi affar loro il lamento di quegli sventurati che, in fondo, non lo dicono ma lo pensano, hanno meritato quel destino d’emarginazione.
Nelle terre di nessuno vivono e proliferano questi figli abbandonati con un’unica vocazione possibile: l’odio verso la famiglia.
L’odio vocazionale presto invade le terre di qualcuno, quelle della famiglia originaria. E così la famiglia si accorge nuovamente di loro e prova sgomento per questa violenza inaudita. I capifamiglia si riuniscono, c’è chi alza la voce e sbraita, altri cercano di non perdere la testa, qualcuno sghignazza perché spera di fare carriera.
Tuttavia, nessuno di loro che sia mai sfiorato da un pensiero visionario: se il difetto fosse all’origine? Se il senso del vivere in famiglia non fosse una spietata competizione tra figli produttivi e improduttivi? Se questa violenza, che ciclicamente torna, fosse stata generata proprio dalla nostra indifferenza?

 

L’idea di noi

Siamo costante mutevolezza esposta alla circostanza spaziotemporale che provvisoriamente ci accoglie. È quindi umanamente comprensibile il desiderio di fronteggiare il caos che a fatica custodiamo affezionandoci a una sola idea di noi. È un’illusione di stabilità consolatoria che spesso corteggiamo fino al grottesco. A volte è come portare a spasso un cadavere. Quando si esibisce, questa presenza ostentata è terribilmente apatica, anche nei casi più esuberanti di idea di noi, proprio perché nella sua monolitica prevedibilità si limita a ripetersi.

L’essere umano è laboratorio, dietro le quinte e palcoscenico. Come dire: confronto col caos, manipolazione del caos e cristallizzazione del caos. Il potenziale creativo d’ogni essere umano è il suo modo peculiare di sfidare il maremoto che lo avvince e plasmarlo fino a farne statua di sale. L’essenza è questo divenire inesausto, laboratorio e dietro le quinte; l’apparenza, invece, è l’idea di noi che si esibisce sul palcoscenico: il manufatto statico, l’illusione di stabilità consolatoria, la convinzione d’essere sempre presenti a noi stessi.

Tuttavia ogni statua di sale, per quanto solida, al contatto inevitabile col flusso caotico che ci domina, è destinata a sciogliersi di nuovo. L’ostinata identificazione con una idea di noi può essere rassicurante ma è come voler mantenere in vita una carne putrefatta. Le repliche dell’idea di noi, soprattutto se ben riuscite, sono conferme al potere che esercitiamo sugli altri ma annichiliscono la crescita evolutiva del nostro potenziale.

Forse siamo veramente noi quando siamo fuori di noi, nella pazzia sempre nuova di crederci capaci di duellare con l’impeto dell’onda e di modellarla al nostro provvisorio piacimento.

In quell’atto di sfrontata e reiterata esuberanza c’è l’uomo vivo.

La conquista della vitalità è definitiva rinuncia alla ricerca della stabilità e, probabilmente, alla gratificazione appagante del riconoscimento.

Il prezzo da pagare è salato. E non poteva essere altrimenti.